di Vincenzo Elifani
Pubblicato su QUADERNI DEL MASTER IN GEOPOLITICA E SICUREZZA GLOBALE
2. Il miracolo economico coreano
Negli ultimi decenni, la Corea del Sud, o per meglio dire la Repubblica di Corea, ha dimostrato di essere uno dei paesi più dinamici al mondo. Secondo le statistiche dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), la Corea del Sud è la tredicesima economia mondiale e la quarta in Asia dopo il Giappone, la Cina e l’India. La Corea del Sud è il primo paese nelle classifiche mondiali per connessioni internet a banda larga nelle abitazioni (96% delle utenze) e come produttore di schermi LCD; è il secondo paese al mondo produttore di telefoni cellulari e il terzo di semiconduttori. Ha un’economia fortemente orientata alle esportazioni, da cui dipende circa la metà del PIL nazionale. Possiede un elevato livello tecnologico in vari comparti, dal settore automobilistico a quello della cantieristica navale, dal terziario all’edilizia, dove ha realizzato imponenti costruzioni edili ed infrastrutturali in Medio Oriente e in molte altre parti del mondo. Ha un basso tasso di disoccupazione ed è il secondo paese al mondo per livello d’istruzione, dietro solo ad Israele. Le università e i laboratori di ricerca producono un crescente numero di scienziati e di ingegneri di elevata competenza. Inoltre, la Corea del Sud gode di uno dei più alti standard di vita nel mondo, dove l’aspettativa di vita è superiore a quella degli Stati Uniti.
Ciononostante, soltanto settant’anni fa, alla fine della seconda guerra mondiale, la Corea del Sud era uno dei Paesi più poveri del globo.
Economicamente povera di risorse naturali, la Corea del Sud, all’inizio degli anni sessanta, esportava principalmente il tungsteno, utilizzato prevalentemente per produrre i filamenti delle lampade ad incandescenza, il pesce e i capelli umani per la produzione di parrucche. Il Paese era così povero che in quegli anni il reddito pro- capite medio di un cittadino coreano era circa la metà del reddito medio pro capite di un cittadino del Ghana.
Da quegli anni bui cominciò una grande e incessante rinascita economica e culturale. Nel 1960 la popolazione attiva era impiegata per il 63% nell’agricoltura, per l’11% nell’industria e per il 26% nei servizi. Nel 1980 le proporzioni erano sostanzialmente cambiate. Nell’agricoltura l’occupazione era scesa al 34%, mentre nell’industria era salita al 23% e nei servizi al 43%. Alla fine degli anni ottanta, dopo un ventennio di crescita del PIL di circa un 8-9% annuo, la Corea del Sud non esportava più solo parrucche fatte con capelli umani ma anche televisori ed automobili.
Nel 1946, il volume del commercio della Corea del Sud era di 64 milioni di dollari, ed era classificata al 65° posto nella classifica del commercio mondiale. Mentre negli anni 1970 e 1980 le esportazioni riguardavano principalmente i prodotti tessili, nel corso degli anni 1990 e 2000 sono state alimentate dall’alta tecnologia e dall’industria pesante. L’espansione dei volumi ha contribuito a diffondere all’estero marchi di aziende locali come Samsung Electronics, Hyundai Motor, Kia Motors che figurano nei primi posti delle classifiche mondiali delle più grandi multinazionali.
In questi ultimi anni la Repubblica di Corea ha conosciuto uno dei tassi di crescita più consistenti al mondo, fenomeno che è stato in seguito ribattezzato il «Miracolo del fiume Han», con esplicito riferimento al fiume che attraversa la capitale Seoul. Dopo la crisi asiatica del 1997, la Corea ha ripreso la sua forte crescita economica, tanto da essere definita, insieme a Hong Kong, Taiwan e Singapore, una delle «Tigri asiatiche». Oggi la Corea del Sud fa parte del G-20, il gruppo delle venti maggiori economie al mondo, dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), delle Nazioni Unite (ONU), della World Trade Organization (WTO), è membro fondatore dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) e dell’East Asia Summit (EAS).
È l’unica potenza sviluppata ad essere stata inserita da Goldman Sachs nel gruppo dei «Next Eleven», ossia gli undici paesi: Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Corea del Sud e Vietnam, che insieme ai paesi “BRICS” Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, hanno grandi possibilità di diventare tra le maggiori economie del XXI secolo.
La domanda è spontanea: “Come un Paese così piccolo e così povero e, oltretutto, privo di risorse naturali, ha potuto compiere, in un così breve periodo, un miracolo economico così eclatante?”
La Corea del Sud, sotto certi aspetti, è molto simile all’Italia. Morfologicamente è una penisola con un territorio di circa 100.000 Km2, pari ad un terzo del territorio italiano e con una popolazione di circa 50 milioni di abitanti, a fronte dei 60 milioni di abitanti dell’Italia. Entrambi i paesi hanno scarse risorse naturali, tuttavia in questi ultimi anni, mentre l’industria italiana, in particolare quella pesante, ha subito un forte rallentamento, quella coreana ha avuto un exploit sensazionale.
La crescita del commercio internazionale sudcoreano negli ultimi decenni è stata folgorante. Da soli 1,3 miliardi di dollari nel 1967, si è passati a 11,3 miliardi nel 1973, per poi spiccare il volo con 112,5 miliardi nel 1988, 545,7 miliardi nel 2005 e mille miliardi nel 2011.
Per rispondere alla domanda sul segreto del miracolo economico coreano, è importante rivolgere l’attenzione a una serie di eventi storici e di scelte politiche appropriate.
La popolazione sudcoreana è cresciuta velocemente passando da poco più di 19 milioni di abitanti del 1950 a oltre 50 milioni di oggi, anche se attualmente la crescita si è arrestata a causa delle politiche per il controllo delle nascite per cui si intravedono le prime nuvole all’orizzonte, soprattutto in materia di welfare.
Con un tasso di crescita demografica particolarmente basso e tendente allo zero, la piramide della popolazione della Corea del Sud presenta un grafico rigonfio al centro tipico dei Paesi industrializzati, evidenziando una preoccupante diminuzione delle classi di età più giovani (0-14 anni) a fronte di un aumento delle classi di popolazione più anziana (40-55 anni). In altre parole ciò significa che la popolazione sud coreana sta invecchiano rapidamente e che se non si inverte il trend presto ci saranno problemi per sostenere il sistema produttivo e continuare a pagare le pensioni.
L’aspettativa di vita è, invece, tra le più alte al mondo, 79 anni per gli uomini e 85 anni per le donne.
Nel corso degli anni Sessanta il paese è stato radicalmente trasformato grazie al perseguimento, da parte dei regimi militari, di politiche di crescita, di modernizzazione e di industrializzazione. La Corea del Sud è riuscita a passare “dai piedi nudi alla banda larga” (from barefoot to broadband) soprattutto grazie a puntuali politiche, finalizzate ad assegnare un ruolo preminente alla ricerca e alla formazione a tutti i livelli. La Corea del Sud ha conosciuto tassi di crescita significativi e da paese prevalentemente agricola ha assunto progressivamente la struttura attuale di grande paese economico industriale.
Subito dopo la firma dell’armistizio con la Corea del Nord, il Presidente sudcoreano Syngman Rhee si è proposto di trasformare il Paese da agricolo a industrializzato mediante una politica economica basata sulla sostituzione delle importazioni con i beni prodotti internamente. Il governo coreano ha favorito allora la nascita di nuove industrie e stabilito una rigorosa politica protezionista contro la concorrenza industriale straniera. I nuovi industriali coreani si sono dedicati alla produzione alimentare e tessile grazie ai sostanziosi crediti elargiti dal governo. Proprio la Samsung, oggi uno dei principali esportatori mondiali di computer, cellulari e semiconduttori, ha lanciato la sua attività industriale grazie all’appoggio dello Stato. Fondata il primo marzo 1938 da Byung-Chull Lee, iniziò con un’attività commerciale a Daegu, occupandosi principalmente di esportazioni nella regione della Manciuria e a Pechino di prodotti coreani essiccati, quali pesce, verdura e frutta, Di lì a poco più di dieci anni, Samsung, che in coreano significa “tre stelle”, avrebbe acquisito mulini e investito in macchinari per l’industria dolciaria. Partendo da queste povere origini, Samsung sarebbe diventata la moderna azienda globale che esporta sotto lo stesso nome in tutte le parti del mondo.
Si può quindi affermare che la borghesia industriale coreana è nata grazie ai prestiti concessi dallo Stato e alla creazione di una rigorosa barriera protezionista voluta dal governo del Presidente Syngman Rhee, un politico di destra formatosi negli USA.
La conoscenza della storia dell’industrializzazione giapponese ha portato i militari a diffidare delle ricette economiche liberali, del libero commercio e del non interventismo statale proposto dagli USA.
Nel 1962 la Giunta militare predispose un primo piano quinquennale (1962-66) che prevedeva un massiccio aumento degli investimenti per sostenere un rapido processo di industrializzazione sostituendo le importazioni con la produzione nazionale.
Il secondo piano quinquennale (1967-71) avviò politiche per accompagnare il processo di urbanizzazione e migliorare la qualità dell’istruzione e della formazione degli immigrati provenienti dalle zone rurali.
Con il terzo piano quinquennale (1972-76) si volle dare un forte impulso all’industria siderurgica pesante e a quella chimica sostenuto tra l’altro dall’enorme quantità di forza lavoro liberata dall’esodo agricolo e dall’incremento demografico, oltre che da consistenti investimenti provenienti dagli Stati Uniti, dalla Germania e da varie organizzazioni internazionali.
Tuttavia, l’indebitamento estero e l’elevata inflazione, che erodeva la competitività degli esportatori, mostrò la vulnerabilità dell’economia coreana agli shock esterni come avvenne con la crisi petrolifera del 1973. Così, con il quarto piano quinquennale (1977-81) si volle porre rimedio a questi limiti, riservando maggiore attenzione alla crescita dell’agricoltura e all’autosufficienza alimentare, all’equità e alla distribuzione del reddito, all’efficienza e alla redditività dell’industria e non solo all’aumento della produzione.
In sostanza la politica dei militari per trasformare la Corea del Sud da povero paese agricolo in un paese ricco ed industrializzato si basò su questi assunti:
- Dotarsi di un’industria pesante (siderurgica e petrolchimica) per alimentare l’industria leggera, ridurre le importazioni e migliorare la bilancia dei pagamenti;
- Sviluppare l’industria leggera nazionale in modo che i prodotti esportati fossero più competitivi, in quanto costituiti il più possibile da componenti prodotti nel Paese e quindi con prezzi controllati;
- Investire pesantemente nell’educazione e nella ricerca per sviluppare il più possibile tecnologia e
- Proteggere, almeno all’inizio, la nascente industria pesante e chiudere le frontiere alla concorrenza straniera;
- Nazionalizzare il sistema finanziario, dalle banche principali alla più piccola compagnia di assicurazione, per garantire al governo di finanziare e controllare l’evoluzione dei programmi
Il governo coreano applicò un severo protezionismo sia sulla produzione agricola (divieto di importare riso) sia su quella industriale. I successi che l’agricoltura coreana raggiunse non furono meno di quelli industriali. Con una modesta superficie destinata all’agricoltura, poco più di 20.000 Km quadrati, la produzione agricola fu in grado di garantire la base alimentare della popolazione, senza dipendere dalle importazioni estere.
È opinione comune che la Corea del Sud si sia potuta sviluppare grazie all’appoggio degli USA e degli organismi internazionali controllati da Washington come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. In verità, quando la Corea del Sud ha voluto dar vita ad una propria industria pesante, la Banca Mondiale non ha erogato i finanziamenti in quanto non ha ritenuto fattibile il progetto governativo. Nel 1962 la Banca Mondiale considerava realizzabile solo qualche modesto miglioramento degli standard di vita, ma prevedeva che la crescita non sarebbe stata esaltante escludendo che, nel medio periodo, la Corea potesse raggiungere «l’obiettivo ultimo di un’economia capace di reggersi sulle proprie gambe». Data la carenza di risorse naturali, la ristrettezza del mercato interno e l’indisponibilità di manager preparati, gli esperti di Washington sconsigliavano fortemente di puntare tutto sulla pianificazione e sull’industria manifatturiera e suggerivano al contrario d’investire nell’agricoltura, ritenendo che ciò avrebbe pian piano consentito l’emergere di un’economia moderna. Oltretutto, il governo coreano si proponeva di utilizzare imprese partecipate dallo Stato, in antitesi con la dottrina economica prevalente che vedeva nell’apertura ai capitali stranieri e alle imprese multinazionali, l’unica strada per agganciare lo sviluppo economico. A giudizio della Banca Mondiale la ricetta sudcoreana sarebbe stata il preludio ad un disastro economico.
Ma non andò così. Nel 1973, dopo dieci anni dall’inizio della produzione, la compagnia sudcoreana POSCO è diventata uno dei produttori di acciaio più efficienti del pianeta e con 35,4 milioni di tonnellate di acciaio nel 2010 è diventata il quinto produttore di acciaio al mondo.
Anche in un’altra occasione, a metà degli anni ’70, la Banca Mondiale si è rifiutata di prestare aiuto al piano di sviluppo industriale coreano ritenendo troppo ambizioso il programma di potenziamento dell’industria pesante, suggerendo al contrario di ridurre lo sforzo in tale settore. Le autorità sudcoreane, ovviamente, non gli diedero ascolto.
Quando, all’inizio degli anni ’90, il successo del modello coreano non poteva più essere nascosto, la Banca Mondiale, che per anni aveva sostenuto che lo stesso si basava sul libero mercato e sul libero commercio, ha pubblicato nel 1993, una “celebre” e “disinteressata” relazione intitolata “Il miracolo dell’est asiatico”. In tale relazione la Banca Mondiale consigliava alle nazioni sottosviluppate di non imitare le politiche perseguite da Giappone e Corea del Sud per industrializzarsi ed uscire dal sottosviluppo in quanto, sosteneva che tali politiche non potevano funzionare efficacemente in Paesi altamente corrotti e privi di una schiera di economisti di primo livello, come era per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo. La Banca Mondiale, tuttavia, si dimenticava di comunicare che i piani quinquennali coreani erano stati redatti e supervisionati da «economisti di terza o quarta categoria» e che in Corea la mente, che guidava il programma di industrializzazione del Presidente Park, era un ingegnere, un certo Oh-Won Chul.
Sebbene siano passati più di cinquant’anni, è importante analizzare questo passaggio perché il rifiuto di seguire le raccomandazioni della Banca Mondiale ha consentito alla Corea di accelerare il ritmo «naturale» della propria crescita e gettare le basi per il suo boom economico. Raramente una previsione si è rivelata tanto errata. A fronte dei calcoli della Banca Mondiale che indicavano che la crescita non avrebbe mai superato il 5%, il risultato nel quinquennio successivo è stato dell’8,5%. Evidentemente, la visione di Park Chung-hee, l’uomo forte della Giunta, era stata corretta. Inoltre, il Presidente Park Chung-hee fece emanare una serie di provvedimenti, esemplari per l’opinione pubblica, condannando dei funzionari corrotti e gli operatori del mercato nero. Tali circostanze consentirono una maggiore moralizzazione del Paese, abbattendo drasticamente la corruzione. Il Presidente Park Chung-hee fu assassinato il 26 ottobre 1979 da Kim Jae-Gyu, presidente del National Intelligence Service e capo del suo servizio di sicurezza. Park rimane una figura controversa in Corea del Sud poiché per molti coreani è l’artefice del “Miracolo sul fiume Han”, ossia della crescita industriale ed economica della Corea del Sud, mentre per molti altri è stato solo un dittatore. Nel 1999 la rivista Time lo ha inserito tra i 100 asiatici più importanti del secolo.
La Corea del Sud era riuscita dopo la guerra a formulare una strategia di crescita economica che le aveva permesso di incrementare di otto volte il reddito pro capite in tre decenni.
Terminata la Guerra Fredda, con la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione Sovietica, gli USA hanno chiesto al neo Presidente coreano Kim Young- Sam di «seguire le raccomandazioni della Banca Mondiale e del FMI». Il Presidente coreano procedette, nella cornice di un programma neoliberale, alla liberalizzazione dei movimenti di capitale.
Nel 1997 un’ondata di attacchi speculativi si scatenò contro la moneta coreana – così come contro quelle di altri Paesi del sud-est asiatico – facilitata dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale di qualche anno prima. La crisi fu innescata da problemi strutturali legati al forte indebitamento delle proprie grandi imprese con creditori esteri.
Nel dicembre 1997 il governo di Seul accettò le condizioni imposte dal FMI per un prestito di 57 miliardi di dollari:
- l’accettazione dell’autonomia dal governo della Banca.
- l’aumento dei tassi di interesse.
- l’abbandono da parte dello Stato dei grandi progetti di investimento.
- lo smantellamento di alcuni dei grandi Chaebol, cioè dei grandi conglomerati industriali appartenenti alla borghesia coreana.
- la vendita di alcuni Chaebol che erano riusciti a trasformarsi da PMI a imprese di stampo mondiale.
- la riforma del codice del lavoro per istituire la più completa flessibilità.
Dopo l’accettazione delle condizioni il Paese subì una profonda recessione, con una caduta del 7% del PIL nel 1998. Il debito pubblico crebbe in modo spettacolare perché lo Stato si fece carico del debito delle imprese private. Il debito pubblico, pari al 12%
del PIL prima della crisi, quasi raddoppiò, arrivando al 22% alla fine del 1999. A sua volta, l’aumento del debito pubblico servì da pretesto per applicare nuovi tagli alle spese sociali e per ampliare i programmi di privatizzazione e di apertura al capitale straniero. Il salario reale del lavoratore coreano diminuì del 4,9%. Comunque, la crisi venne riassorbita entro la fine del 1999 e il prestito estinto da lì a poco tempo.
Dopo alcuni anni, nonostante la crisi avesse costretto numerose imprese nazionali alla bancarotta, la Corea del Sud, dal 1997 ad oggi, è stata in grado di triplicare il proprio PIL, divenendo una tra le più attive e fiorenti economie mondiali. Gli effetti maggiori della crisi si sono fatti sentire sul debito pubblico, quasi triplicato dal 13% ad oltre il 30% negli ultimi 10 anni. La Corea del Sud in trent’anni – rifiutando il pensiero del libero scambio ed applicando il protezionismo del mercato interno, accettando solo in modo selettivo l’investimento straniero e dando impulso ad una politica di industrializzazione – è passata dall’essere uno dei Paesi più poveri del mondo a una delle principali potenze industriali. In quaranta anni la Corea del Sud ha sradicato la povertà ed è diventata un Paese pienamente sviluppato con una qualità di vita tra le più alte del mondo.
La risposta alla domanda iniziale viene suggerita dall’economista americano ed ex vicepresidente della Banca Mondiale Joseph Stiglitz il quale ha aspramente criticato l’operato del FMI sia prima che durante la crisi asiatica, accusandolo di aver inutilmente esposto economie con alti tassi di risparmio alla volatilità dei capitali esteri. Ha inoltre evidenziato come siano state versate ingenti somme nelle casse dei paesi in difficoltà con l’unico scopo di rimborsare le banche creditrici occidentali, causando ulteriori danni alle economie già in difficoltà. È opinione dell’economista americano che le istituzioni internazionali non vedessero di buon occhio i governi orientali, che avevano dato il via a sviluppi così floridi in aperto contrasto con le politiche liberali occidentali. A fronte di una richiesta di rapida liberalizzazione del mercato finanziario e dei capitali, i governi asiatici, tra cui quello sud coreano, avevano preferito intraprendere un passaggio graduale e rispetto alle privatizzazioni sul modello americano, avevano risposto sovvenzionando le imprese strategiche per l’interesse del paese.
Per coloro che sostengono che il processo di globalizzazione e lo sviluppo economico, accorciando le distanze, rendono impossibile applicare protezionismi economici e impulsi statali adeguati, si ricorda che la distanza di Seoul, capitale della Corea del Sud, da Tokio, capitale del Giappone, è di 1.150 km, e da Osaka di solo 824 km. La Corea del Sud decidendo di costruire un potente apparato industriale, non complementare ma competitivo a quello giapponese, ha creato un’industria concorrenziale con quella giapponese in particolare nel settore automobilistico, nel momento in cui il Giappone era già una Potenza industriale e uno dei principali esportatori di automobili del mondo. Quando, nel 1960, la Corea ha deciso di incrementare il processo di sostituzione delle importazioni per poi passare a sostituire le esportazioni, il Giappone era già un gigante industriale che produceva beni molto più economici e di migliore qualità rispetto a quelli della neonata industria coreana. A soli 200 km dalla costa giapponese, la Corea non avrebbe mai potuto industrializzarsi senza applicare un ferreo protezionismo economico che ha impedito l’invasione dei prodotti giapponesi. Inoltre, la Corea non ha incoraggiato le imprese giapponesi ad installarsi nel proprio territorio, come a suo tempo aveva fatto il Giappone. Così, la Corea discriminando gli investitori giapponesi tanto quanto quelli statunitensi o europei, ha privilegiato gli imprenditori coreani, appoggiandoli senza sosta con le banche dello Stato.
Il caso coreano mostra senza dubbio come uno Stato, assolutamente povero di risorse naturali e con un mercato interno relativamente limitato, si possa industrializzare in modo competitivo e non complementare anche avendo come vicino un paese industrializzato.
L’economista coreano Ha-Joon Chang sostiene che: «se la Corea avesse intrapreso il libero commercio e non avesse dato impulso alle industrie incipienti, non sarebbe arrivata ad essere una nazione commercialmente importante. Starebbe ancora esportando materie prime (tungsteno, indumenti, parrucche di capelli umani). La protezione non garantisce lo sviluppo, ma lo sviluppo senza di essa è molto difficile».
Aggiunge poi: «Il miracolo economico coreano fu conseguenza di un mix intelligente e pragmatico di incentivi commerciali e impulso statale […]. Se la Corea fosse l’unico caso di Paese che si è arricchito con queste politiche, i guru del libero mercato potrebbero considerarla l’eccezione che conferma la regola. Ma la Corea non è un’eccezione […]. Praticamente tutti i Paesi oggi sviluppati, tra i quali Gran Bretagna e Stati Uniti, teoricamente la patria del libero mercato e del libero commercio, sono diventati ricchi grazie a politiche opposte. Le nazioni ricche di oggi usarono protezionismo e sovvenzioni, oltre a discriminare gli investitori stranieri, contraddicendo l’ortodossia economica attuale e i severi trattati multilaterali moderni, tra i quali quelli della WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), e degli elargitori di aiuti e delle organizzazioni finanziarie internazionali, in particolar modo il FMI e la Banca Mondiale».
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