di Vincenzo Elifani
Pubblicato su QUADERNI DEL MASTER IN GEOPOLITICA E SICUREZZA GLOBALE
3. Giappone dal boom economico alla recessione
La fine della seconda guerra mondiale aveva lasciato il Giappone in condizioni disperate. Nel corso del conflitto, erano morte più di 2 milioni di persone, un terzo delle quali civili; le città giapponesi attaccate con bombe incendiarie erano ridotte a cumuli di macerie, i senza tetto erano più di 10 milioni e, infine, per accelerare la fine della guerra, considerata la difficoltà di uno sbarco di truppe a causa delle caratteristiche morfologiche del Giappone e considerata la stoica resistenza dei giapponesi, gli americani decisero di sganciare due ordigni nucleari su Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945.
Dopo la firma della resa, gli americani occuparono interamente il Paese e cominciarono la ricostruzione non permettendo a nessun’altra potenza di interferire nella propria politica nipponica.
Conclusosi il processo di Tokio sui crimini di guerra, gli americani imposero una nuova Costituzione che venne promulgata il 3 maggio 1947. Questa scelta successivamente si rivelò fondamentale ai fini della crescita economica del Paese, che di fatto delegò agli Stati Uniti tutte le spese per la propria sicurezza nazionale e poté investire in attività produttive tutto il capitale disponibile. Una volta rimessa in moto, l’industria assunse un accelerato ritmo produttivo, tornando ai livelli degli anni Trenta già verso il 1955.
Per circa vent’anni, il tasso di sviluppo del Giappone fu straordinariamente elevato: più del 10% all’anno. I motivi di tale successo economico furono molteplici: oltre alle esigue spese militari, va ricordato che gli Stati Uniti, che videro nel Giappone una barriera all’espansione politica della Cina comunista, fornirono cospicui aiuti finanziari e aprirono i loro mercati alle esportazioni giapponesi, non immaginando che i prodotti nipponici sarebbero presto diventati pericolosi concorrenti dei manufatti americani.
Emersero presto in quegli anni (1955-1970) i fattori endogeni della ripresa, prima fra tutti l’organizzazione di nuove e agguerrite holdings chiamate “Keiretsu” imperniate su grandi banche e, pertanto, dotate di capacità imprenditoriali idonee alla gestione di grandi mezzi finanziari. Vi erano inoltre una spiccata propensione al risparmio della popolazione e una forte domanda del mercato interno dovuta a una continua e sensibile crescita dei salari reali, che moltiplicava di ben 4,5 volte il potere di acquisto. Infine, lo Stato esercitava un’accorta politica di incentivi e sosteneva un’eccellente organizzazione commerciale, coordinata dal Ministero del Commercio Internazionale e dell’Industria (MITI), il quale, agendo come tramite fra potere politico ed economico, finiva per orientare le strategie produttive di fondo. Per ultimo, ma non per questo meno importante, bisogna ricordare la diffusione di una scolarizzazione superiore di massa, che rese i giovani giapponesi particolarmente qualificati nei loro campi di attività.
Pur rimanendo fedele ai principi dell’economia liberista, dunque, il governo giapponese veniva assumendo un ruolo sempre più rilevante nella programmazione economica, che, pur dichiaratamente orientativa, si dimostrava, alla prova dei fatti, vincolante e portatrice di grandi successi.
Dalla metà degli anni Sessanta si ebbero una serie di veri e propri boom economici, con tassi di crescita del PIL addirittura superiori al 10% annuo, intervallati da brevi fasi recessive; il Giappone arrivò a costruire oltre la metà del tonnellaggio mercantile mondiale, si collocò al terzo posto nella produzione di acciaio e di motoveicoli e occupò il secondo posto nel settore elettronico. Alla base di questi straordinari successi produttivi vi era comunque il peso dei grandi complessi siderurgici e petrolchimici, localizzati nelle aree portuali per far fronte ai costi di trasporto delle materie prime, pressoché totalmente di importazione.
La vertiginosa crescita economica degli anni Cinquanta e Sessanta non fu del tutto priva di problemi. Le città giapponesi crebbero in maniera elefantiaca: Tokyo, ad esempio, già negli anni Sessanta raggiunse gli 8 milioni di abitanti. Per far fronte a un simile boom urbanistico si fece massiccio ricorso alla costruzione dei grattacieli mentre gli appartamenti finirono per assumere dimensioni sempre più piccole, a causa degli elevati costi delle abitazioni. Per contenere le spese, molti giapponesi furono costretti a cercare casa lontano dal posto di lavoro, ma il problema dei trasporti fu solo in parte risolto dal potenziamento delle metropolitane e dalla costruzione di ferrovie ad alta velocità. Inoltre, il problema dell’inquinamento divenne rapidamente prioritario.
Nel corso degli anni Ottanta, la crescita economica del paese avanzò ulteriormente, soprattutto a danno degli Stati Uniti. Gli USA importarono a lungo prodotti giapponesi in quantità elevatissime tanto che, verso la fine del Novecento, numerosi giornalisti ed economisti avevano previsto che il Giappone sarebbe diventato la prima potenza economica mondiale del XXI secolo. I profeti dell’imminente supremazia nipponica non avevano valutato a fondo alcuni nuovi e gravi problemi strutturali che l’economia e la società giapponese avrebbe dovuto affrontare.
La popolazione nipponica sta invecchiando rapidamente, al punto che una parte notevole e crescente delle risorse deve essere impiegata per spese assistenziali e previdenziali, su scala molto più ampia che in passato. I giovani, dal canto loro, appaiono insofferenti della scadente qualità della vita che caratterizza i grandi centri urbani giapponesi e degli elevatissimi ritmi di lavoro. Infine, il sistema bancario del paese ha mostrato alcuni preoccupanti segni di debolezza, fornendo ingenti prestiti a paesi come la Corea del Sud, Taiwan o Singapore, che dopo un periodo di espansione economica e produttiva hanno incontrato notevoli difficoltà, verso la fine degli anni Novanta, a mantenere i ritmi di crescita del decennio precedente.
Lo sviluppo industriale giapponese era basato sui finanziamenti bancari e non sull’emissione da parte delle compagnie di bond e azioni. Come già detto precedentemente, banche, grandi compagnie e industrie dell’indotto formavano veri e propri gruppi economici omogenei, detti “Keiretsu”, i quali hanno contribuito a creare quel sistema di welfare omnicomprensivo per i propri lavoratori che ha caratterizzato il modello giapponese. Fin dagli anni Cinquanta il governo aveva stimolato il risparmio privato e mantenuto basso il livello di apertura al commercio internazionale di molti settori dell’economia. Questi fattori hanno garantito un constante aumento di competitività tecnologica attraverso l’alto livello di investimenti interni, e larghi surplus di bilancia commerciale a partire dagli anni Settanta. Negli anni Ottanta, in particolare dopo l’Accordo del Plaza del 1985 che portò ad una forte svalutazione del dollaro rispetto a Yen, Marco tedesco e Sterlina inglese, questo trend portò ad un forte apprezzamento dello Yen che tra il 1985 e il 1987 vide aumentare il proprio valore sul dollaro di circa il 51%. In questo periodo le banche stimolarono con offerte molto allettanti la domanda della clientela, facendo crescere di conseguenza la domanda di beni di lusso e abitazioni.
Gli interventi di espansione monetaria e la forte speculazione che seguì negli anni successivi portarono, a partire dal 1986, alla formazione e poi allo scoppio nel 1991 della cosiddetta “bolla speculativa giapponese”. La Banca del Giappone, nel tentativo di adottare una politica di bilancio più restrittiva, aumentò bruscamente i tassi di interesse. Di conseguenza le banche si trovarono impossibilitate ad esigere i prestiti a causa dell’insolvenza dei clienti. Inoltre, anche il pignoramento dei beni in via di garanzia si rivelò inutile, in quanto la maggior parte di essi aveva perso gran parte del proprio valore originario. L’effetto deflazionario che ne seguì, accompagnato da altri fattori sociali quali il rapido invecchiamento della popolazione, il calo delle nascite e l’aumento della disoccupazione, fece piombare il Giappone in un decennale periodo di recessione chiamato “decennio perduto”, che segnò la fine del boom economico del secondo dopoguerra.
Le banche, inoltre, non seppero far fronte al problema del loro indebitamento. Infatti, non seppero approfittare delle agevolazioni fornite dalla Banca del Giappone che permise di espandere la loro capacità di prestito, angosciate dal valore del loro capitale che continuava a diminuire. Inoltre, pur preoccupate che tale allargamento della capacità di prestito potesse aumentare la possibilità di elargire cattivi prestiti, le banche continuarono a tenere in vita le cosiddette “imprese zombie”, ovvero quelle imprese in gravi difficoltà finanziarie ma allo stesso tempo considerate “troppo grandi per fallire”, mentre si rifiutarono di rinnovare i prestiti alla maggior parte dei loro clienti. Vittime di questa situazione furono soprattutto le piccole imprese, i clienti più importanti delle banche giapponesi, le quali cominciarono a fallire (circa mille al mese) causando un forte aumento del tasso di disoccupazione, il quale raggiunse il 3,2% nell’aprile 1995. Più tardi, anche le grandi imprese cominciarono a spostare le proprie fabbriche nei Paesi asiatici vicini causando la diminuzione di occupazione anche per quanto riguarda le industrie manifatturiere.
Queste crisi hanno messo in discussione i fondamenti stessi del “modello giapponese”, protezionista e fortemente controllato dallo Stato, che si traducevano nel mito dell’impiego a vita, della fedeltà all’azienda, del “lavoro uguale missione”. Si può infatti riscontrare una stretta correlazione tra le ristrutturazioni aziendali, e i relativi migliaia di posti di lavoro a rischio, con fenomeni come l’aumento del numero dei divorzi o il crollo del vecchio modello familiare.
A partire da questo periodo e per tutti gli anni Duemila, i governi che si sono succeduti e la Banca centrale hanno cercato di stimolare e sostenere la ripresa economica attraverso stimoli fiscali sempre più ingenti e l’abbassamento dei tassi di interesse ai minimi storici. Soprattutto per motivi politici, però, sono state costantemente procrastinate quelle riforme, soprattutto nelle politiche commerciali, che sono considerate il principale freno ad una decisa ripresa. I numerosi comparti protetti da tariffe e barriere, infatti, hanno da sempre formato lobby e gruppi di pressione che hanno fermato tali riforme, contribuendo a mantenere gli alti surplus di bilancia commerciale e il conseguente costante rincaro della valuta. La crisi finanziaria del 2008 e la recessione che ne è seguita ha però riportato l’economia giapponese sotto pressione, con il rapporto debito/PIL che attualmente è arrivato a toccare il 219%, la percentuale più alta del mondo. Il Giappone resta comunque un Paese ricco, terza potenza economica mondiale, dopo gli Stati Uniti e la Cina.
Secondo l’indice di sviluppo umano, il Giappone si colloca al 7° posto nella classifica mondiale. Il Paese è molto avanzato nella cosiddetta e-economy, vale a dire nell’uso dei portali per l’accesso a Internet e di conseguenza sono molto diffusi l’e-commerce e le operazioni bancarie on line.
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